Covid-19: obbligo o patentino vaccinale? Cosa dice la nostra Costituzione in merito…

La scoperta del vaccino anti COVID-19 dà una speranza, ma pone molteplici interrogativi non solo di carattere medico, ma anche di rilievo giuridico. In particolare, il principale tema che si pone riguarda la decisione sulla obbligatorietà, o meno, del vaccino e, nel primo caso, se tale obbligo possa riguardare tutti i cittadini o solo una porzione di essi (ad esempio, i sanitari, agli anziani e, fra essi, soprattutto quelli che dimorano nelle R.S.A., le persone affette da patologie tali per cui il contagio da COVID-19 potrebbe risultare letale, il corpo docente, ecc.).
Per risolvere il dilemma occorre partire dall’art. 32 della Costituzione, che dispone che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Pertanto, la Costituzione ammette la possibilità che un determinato trattamento sanitario possa essere reso obbligatorio, a condizione che ciò sia disposto con legge o con atto avente forza di legge (e non certo con D.P.C.M.). D’altronde, sappiamo bene che l’ultimo intervento di tal genere in materia è piuttosto recente (decreto legge n. 73 del 2017, convertito in legge n. 119 del 2017) e ha disposto l’obbligatorietà di ben dieci vaccini a carico dei più piccoli (da zero a sedici anni), stabilendo in taluni casi che all’osservanza di tale obbligo sia subordinata l’iscrizione a scuola e, quindi, con un implicito apparato sanzionatorio per sua natura piuttosto efficace. Invece, allo stato attuale, proprio questa fascia di popolazione sembrerebbe essere quella che dovrebbe risultare esclusa dal vaccino anti COVID-19.
Va da sé che l’introduzione di un obbligo vaccinale sarebbe in questo momento prematura, se si considera che in Italia stanno giungendo solo poche decine di migliaia di dosi e, pertanto, un obbligo generalizzato non sarebbe osservabile. Tuttavia, si sta sin d’ora ponendo la problematica della obbligatorietà del vaccino a carico della sola categoria di persone che attualmente ne sta beneficiando, e cioè i sanitari.
Infatti, è abbastanza evidente che le già limitate potenzialità del sistema sanitario nazionale risulterebbero ulteriormente compromesse in quei momenti in cui la pandemia raggiunge i suoi picchi e indebolisce le strutture sanitarie in ragione dei contagi a carico del rispettivo personale. Una decisione nel senso dell’obbligatorietà dovrà però senz’altro attendere i dati sulla vaccinazione volontaria, nel senso che un intervento del legislatore potrebbe essere necessario solo (o soprattutto) laddove risultasse eccessivamente bassa la percentuale vaccinata del personale sanitario. E in fondo lo stesso ragionamento dovrebbe valere anche per tutte le altre categorie di persone, atteso che soltanto nel caso in cui la percentuale di italiani vaccinati fosse così bassa da non garantire la c.d. “immunità di gregge” occorrerebbe valutare la necessità di provvedimenti legislativi in materia, che introducano o l’obbligatorietà del vaccino o un meccanismo premiale di “persuasione” alla vaccinazione (il c.d. patentino di vaccinazione), senza che si intacchi la libertà di ogni singolo cittadino, a cui spetterebbe scegliere se vaccinarsi o rifiutarsi di farlo.
Sarebbe quindi il cittadino – e non l’ordinamento statale – a decidere se debba prevalere la propria libertà di autodeterminazione in materia di salute o il proprio diritto alla libera circolazione, il quale potrebbe essere limitato nel caso in cui si scelga la prima opzione. Rimane comunque il fatto che tali limitazioni non potrebbero mai travalicare il limite della ragionevolezza (ad esempio, sarebbe possibile immaginare che – per i soli momenti di particolare veemenza della pandemia – coloro che si siano rifiutati di sottoporsi alla vaccinazione non possano frequentare luoghi ove vi possa essere un concreto rischio di contagio, come mezzi pubblici, ristoranti e bar, cinema e teatri, ecc.).
Questi ultimi meccanismi alternativi alla obbligatorietà tout court presenterebbero diversi vantaggi. Il primo sembrerebbe essere quello della risoluzione a monte del problema della sanzione per il caso di mancato rispetto dell’obbligo vaccinale. Infatti, l’eventuale rifiuto del vaccino in costanza della vigenza del suo obbligo porrebbe il tema della reazione dell’ordinamento per mancata osservanza di un dovere disposto per legge e va da sé che, in uno Stato di diritto che contempli un’effettiva tutela dei diritti fondamentali – come dovrebbe essere il nostro – la coazione all’inoculazione del vaccino risulterebbe aberrante, oltre che verosimilmente in contrasto con lo stesso art. 32, comma 2, Cost., che dispone sì nel senso della possibilità che il legislatore preveda trattamenti sanitari obbligatori per legge, ma che comunque precisa che “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” e sembra piuttosto evidente che una inoculazione forzosa del vaccino anti COVID-19 finisca per travalicare tale limite.
Il secondo vantaggio sarebbe quello di affidare non allo Stato, bensì alla libera autodeterminazione del cittadino, la decisione sul diritto fondamentale che debba prevalere nel caso di specie. Infatti, in nome del principio di proporzionalità, è auspicabile che lo Stato si sostituisca al cittadino in tale decisione solo nei casi in cui non vi sia altra via, mentre negli altri casi è bene che lo Stato non ingerisca nelle scelte di libertà dei consociati. Spetterebbe dunque al singolo decidere se assumersi il rischio dei presunti effetti collaterali del vaccino disponendo però di una più ampia libertà di circolazione, oppure rifiutare quei rischi e limitare però la propria mobilità (sebbene esclusivamente in momenti dell’anno, in luoghi in cui si presenti un concreto rischio di contagio, ecc.).
Tale alternativa rispecchia i concetti di diritto costituzionale americano di “compulsion” e “pressure”. La prima delinea una “costrizione” dello Stato, mentre la seconda fa riferimento a una “pressione” nel senso di premialità tale da indurre il soggetto ad assumere con consapevolezza una decisione o nel senso della prevalenza del proprio diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari o del proprio diritto alla mobilità.
Alcuni ritengono tuttavia che tale meccanismo sia solo “fintamente democratico” o addirittura peggiore e maggiormente costrittivo dell’imposizione dell’obbligo vaccinale tout court. Questa obiezione non sembra tuttavia fondata. Invero, per arrivare a una corretta comprensione del tema, occorre mettere a confronto la posizione di colui che rifiuta il vaccino nei due casi.
Ebbene, nel caso il legislatore opti per meccanismi premiali, costui rimarrebbe in una posizione di “liceità” rispetto all’ordinamento costituito, atteso che il suo comportamento non sarebbe “punito” o “represso” in alcun modo, ma questi si limiterebbe a subire alcune conseguenze negative in termini di mobilità; conseguenze che tuttavia a costui, per logica, dovrebbero apparire solo apparentemente negative, atteso che la sua scelta di non vaccinarsi sarebbe dettata dalla volontà di tutelare la propria salute nei confronti di un vaccino che ritiene essere “insicuro” e, pertanto, non dovrebbe avvertire disagio a vedere limitata la propria libertà di circolazione se, con coerenza, costui abbia assorbito il messaggio che a una pandemia si reagisce o con una prevenzione efficace o con un comportamento che eviti il contagio. Tertium non datur. Costui non potrebbe irresponsabilmente pretendere di non vaccinarsi e di godere – persino nei momenti di picco del contagio – della massima libertà di circolazione, perché vorrebbe adottare un comportamento anti-sociale e soprattutto contrario all’art. 2 Cost., che “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Insomma, sia consentito dire in termini meno tecnici: va bene la libertà, ma non l’arbitrio, che sfoci nel pregiudizio nei confronti degli altri consociati.
Invece, nel caso il legislatore opti per l’obbligo vaccinale tout court, colui che rifiutasse il trattamento si porrebbe in una situazione ben più grave, in quanto si tratterebbe di una situazione di totale “illiceità” rispetto all’ordinamento, che avrebbe scelto di menomare la libertà di autodeterminazione dei cittadini. Tale situazione di illiceità è ben nota alla scienza giuridica e integra il caso dell’obiezione di coscienza, cioè di quelle ipotesi in cui il soggetto, lungi dal rassegnarsi al comando esteriore della norma giuridica, lascia prevalere il proprio “foro interiore” assumendosi le responsabilità e le conseguenze (sanzionatorie) che l’ordinamento prevede. Si deve infatti ricordare che il vero caso dell’obiettore di coscienza non ricorre in quei casi in cui l’ordinamento consente (ormai) l’opzione (ad esempio, il servizio civile al posto del servizio di leva militare, fin tanto che è stato obbligatorio, o il rifiuto della pratica dell’aborto da parte del sanitario), ma in quelli in cui tale opzione è esclusa.
E quindi occorre in definitiva chiedersi se sia meglio che colui che rifiuta il vaccino anti COVID-19 debba vivere in una situazione di liceità o di illeceità per aver scelto di autodeterminarsi in un senso diverso da quello voluto dall’ordinamento e, se il quesito viene posto in questo ragionevole senso, è agevole rispondere che la prima opzione è quella preferibile.
D’altronde, anche in termini di “rimedi” il cittadino sarebbe decisamente agevolato nel caso si adottasse una scelta premiale e non costrittiva. Infatti, se si stabilisse l’obbligo vaccinale, l’unico rimedio che residuerebbe al cittadino in caso di pregiudizi derivanti dalla vaccinazione sarebbe quello del risarcimento del danno, come ebbe a precisare la Corte costituzionale nella famosa sentenza n. 307 del 1990 (in materia di obbligatorietà del vaccino contro la poliomelite). Invece, se si seguisse la strada premiale, il cittadino avrebbe a sua disposizione due rimedi: uno preventivo e – potrebbe dirsi – generale, che consisterebbe nel rifiuto della vaccinazione, pur con alcuni svantaggi in termini di mobilità (solo in alcuni momenti e in certe circostanze); uno successivo che, in caso di accettazione del vaccino, lo tutelerebbe nella malaugurata e – si spera – residuale o addirittura remota ipotesi di effetti collaterali di questo con il diritto al risarcimento del danno.
Neppure sembrerebbe irragionevole una differenziazione, nel senso di stabilire l’obbligo vaccinale per alcune categorie di persone (ad esempio, i sanitari, gli anziani che dimorano nelle R.S.A., ecc.) e il meccanismo premiale per tutti gli altri cittadini, atteso che non vi sarebbe una lesione del principio di eguaglianza, che postula un eguale trattamento per tutte le situazioni eguali o analoghe, ma non certo un trattamento (a quel punto non eguale, bensì) egualitario per situazioni palesemente diverse.
La strada per decidere sull’obbligatorietà, o meno del vaccino, non è quindi quella del pregiudizio, ma del concreto ragionamento intorno ai concetti di libertà, come stabiliti dalla nostra Carta costituzionale, e, se è giusto intavolare sin d’ora questi ragionamenti, è però altrettanto corretto non essere prematuri e attendere quanto meno cosa faranno gli italiani non appena il vaccino sarà davvero a disposizione per tutti.

Paolo Colasante

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